lunedì 20 luglio 2009

Con me nessuno e' straniero perche' siamo tutti Bilal

Mio figlio dice che parlo con tutti. Ed e' vero, almeno in parte. Con me nessuno e' straniero. Ogni anno, al mare, compro qualcosa, quest'anno come lo scorso, da un senegalese. Ho preso un paio di sandali di cuoio, ma l'acquisto il piu' delle volte e' un pretesto per parlare un po', per farmi raccontare qualcosa. La storia del venditore, che e' una storia di vita, come tante altre, il piu' delle volte contrassegnata da una serie di difficolta' e percorsi in salita.
Ognuno di noi ha una storia da raccontare, indipendentemente dal paese dal quale proviene.
In questi giorni sto leggendo Bilal di Fabrizio Gatti e non si puo', proprio non si riesce a rimanere indifferenti a quelle storie che lui ha ascoltato e trascritto. E' difficile anche trattenere le lacrime, per una verita' cosi' palese eppure ripetutamente negata dai Governi e dai giochi di potere dei pochi che si spartiscono il Mondo. Non si puo' rimanere indifferenti al viaggio che ha fatto per dimostrare che siamo davvero tutti uguali, che in certe situazioni siamo solo uomini che cercano un qualsiasi spiraglio pur di mantenere almeno un briciolo di dignita'.
Io sono una shiatsuka e coltivo, oltre al contatto, al sentire e ad un certo distacco, anche la sospensione del giudizio. Chi arriva da me, chiunque sia, sara' accolto. Perche' questo e' un procedimento necessario se mi voglio prendere cura di. Di un uomo, di una donna, che arrivano da me con qualche dolore, piu' o meno fisico, piu' o meno nascosto. Si, nascosto, perche' molti non dicono la verita', non subito. Altri non ne sono consapevoli. Per accoglierli devo necessariamente sospendere il giudizio, altrimenti mi farei prendere da quello che penso, dalle mie convinzioni e sarei condizionata anche nella scelta della terapia. Semplicemente sospendo il giudizio, su di loro, su quello e chi sono, su possibili errori e colpe, su cattive abitudini, su tutto. E lo sospendo su di me, sulle mie aspettative in qualita' di terapeuta. Lo sospendo anche sul trattamento, lascio spazio al fare e ad una mente libera senza pensare di agire, di ottenere un qualsivoglia risultato. Che, comunque, arriva.
Eppure devo anche osservare, come la persona si muove, il tono di voce, come parla, ma non guardo come e' vestito, se si e' lavato abbastanza (secondo i miei canoni), se ha calze pulite, se e' sudato. Altrimenti non potrei fare nulla.
Sospendere il giudizio vuol dire entrare in una diversa dimensione dove io sono il terapeuta che fa un percorso insieme al ricevente, un viaggio verso la consapevolezza, di entrambe.
Vuol anche dire creare una bolla d'empatia dove siamo tutti ''fratelli' in un certo senso, uniti da moltissime cose, al di la' di ogni convenzione o ruolo sociale piu' o meno imposto. E se siamo tutti uguali, lo siamo anche se proveniamo da paesi diversi, se abbiamo frequentato scuole diverse e, almeno per lo spazio del trattamento, se abbiamo convinzioni diverse. Ma se questo e' valido per lo spazio del trattamento, mi domando perche' non dovrebbe esserlo anche fuori da quello spazio. Perche' siamo davvero uniti da un comune destino. Coltivare l'accoglienza vuol dire proprio questo, non accolgo solo chi mi e' simpatico, ma anche chi e' diverso da me. Proviamo ad estendere questo ragionamento ad ogni diversita' e...si', con me nessuno e' straniero. Nessuno sara' mai straniero.
Perche' anche il mio nome e' Bilal. Il nome di tutti noi e' Bilal e non dovremo mai dimenticarlo.

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