martedì 3 settembre 2013

Le due epoche della Cina

 
Mo Yan – Le rane – 382 pagine. Einaudi 



Se una cultura è millenaria, niente distruggerà davvero le sue radici. Questo emerge dall’ultimo libro del Nobel della letteratura Mo Yan che narra la storia di un villaggio, e dei suoi abitanti, della Cina agricola tra due epoche, subito dopo la rivoluzione culturale di Mao e ai giorni nostri. E lo fa, in particolare, tracciando un personaggio, una donna, la zia del protagonista Girino (nome d’arte scelto dal protagonista che vuole diventare un commediografo e scrivere un’opera alla maniera di Sartre), Wan Xin una levatrice, un’ostetrica che all’inizio farà nascere molti bambini, poi dedicando la sua vita al partito e alla rivoluzione culturale di Mao, abbraccerà la filosofia della pianificazione delle nascite. Praticherà aborti, anche oltre il termine e per questo diverse sue pazienti moriranno, compresa la prima moglie di Girino. Del resto la pianificazione era stata programmata per migliorare le condizioni di vita dei cinesi, ma lo scontro con una cultura di tipo agreste e al contempo millenaria che vede nel Cielo una volontà precisa, quella di unirsi alla terra per dare vita, qualcosa che per i cinesi viene considerato sacro. Superata la pianificazione però, le condizioni cambieranno per molti cinesi che non saranno più obbligati a limitare il numero dei figli, ma anzi. La stessa Wu Xin (e Xin in cinese mandarino vuol dire cuore) ritornerà a far nascere bambini, contemplando il miracolo della vita. Wan Xin è famosa tanto che l’interlocutore del protagonista, che è il signor Sugitani, chiede a Girino di scrivere una commedia con le sue gesta. La zia del protagonista è spesso paragonata alla venerata dea della fertilità Niann Gniang. E alla fine del libro, ci saranno appunto nove atti della commedia dove il lutto, la nascita, l’amore e la ricerca della felicità, oltre che del benessere, saranno i temi principali nel cambiamento d’epoca.
Dal punto di vista narrativo, Mo Yan ha usato diverse tecniche narrativa, dall’epistola alla sceneggiatura, miscelando in giuste dosi gli argomenti trattati con gli artifici letterari. E la Cina, la rivoluzione di Mao e le diverse epoche, sono messe in evidenza nei loro chiaroscuri. Mo Yan non dà giudizi definitivi, semplicemente narra e si limita a registrare le luci e ombre di un periodo, a volte travagliato e di un paese che ancora oggi non ha raggiunto un reale equilibrio, perso nella crescita esponenziale, non tanto demografica, ma economica. Non si può giudicare, perché nonostante tutto, nonostante le critiche anche feroci mosse ad alcune decisioni politiche, Mo Yan ama il proprio paese e lo fa amare al lettore che si perde tra le vicende di un villaggio di contadini, ricchissimo di usanze descritte fin nei minimi particolari. I suoi personaggi pensano spesso ed in loro emergono le passioni tipicamente umane, eppure quasi tutti si lasciano in un certo senso trasportare dal vento ineluttabile di un destino, come se implicitamente accettassero quello che la vita propone loro. Più che giudicare, c’è il tentativo di descrivere e di far capire un’epoca, a volte contraddittoria, dove la famiglia appare come un valore assoluto e indissolubile. I propri familiari si amano a prescindere, così come i propri amici, indipendentemente o quasi, dagli atti che compiono. La famiglia è intesa nel senso più allargato del termine, ma è comunque qualcosa che fa parte dell’uomo, per Mo Yan, più di quanto possiamo pensare.





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